21/09/2021
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    Un altro bicchiere di Arak

    Prima di scrivere una tazza di tè.
    È un mattino acido, è silenzio. Tempo di pensare, di impugnare il calore. La corsa è compagna strana, lì per lì molesta. Occorre fotografarla e osservarla a posteriori, le sue forme mosse, il barbaglio dei colori.
    Prendiamo Un Altro Bicchiere di Arak, dalla penna di Angelo Zinna. È un viaggio irrequieto, fitto di imprevisti e orari. A tratti la roulette rallenta, la palla turbina ancora un poco, poi si acquieta. È tutto un alternarsi tra il vissuto e il narrato, tra sketch disegnati correndo e pennellate più distese.

    «L’Iran in tre parole», domando io. Angelo non ha da pensarci troppo.
    «Accoglienza, resistenza, generosità.»

    Nell’Aula Magna del Rettorato il giovane scrittore ci narra le sue vicende, già pubblicate nel 2016 e riproposte in occasione di Nice to Meet You Iran. Siamo al 25 marzo, il festival è ancora all’apice. Alle sue spalle foto di donne velate, minareti e distese di sabbia e asfalto.
    Ha lavorato a Firenze per mesi, mettendo da parte il necessario per partire. Un viaggio protratto in cinque anni, smarrito nell’Oriente del mondo. L’autore ha uno sguardo d’iridi chiare, per qualche motivo così azzeccate. Stanno bene ai viaggiatori gli occhi di quel colore, come svuotati e riempiti più volte, come ripuliti.  Dalla Cina a Istanbul, le duecentosettantatré pagine cercano di abbracciare gli ultimi quattro mesi di una lunga avventura. È uno scrivere limpido come gli occhi, a tratti comico, cammina tenendo per mano. E questa è un’immagine importante, conviene tenerla a mente. Le mani, o meglio le persone. La dimensione umana occupa uno spazio essenziale nell’opera di Angelo Zinna. Non a caso “accoglienza”, “generosità”, “resistenza”, ecco, son tutte parole nate per essere agite dalle persone. Nessuna di esse ha senso d’esistere senza interazioni. E Un Altro Bicchiere di Arak è principalmente un romanzo di interazioni. E sono le più inconsuete, discordanti col nostro senso del quotidiano. Cose che accadono in Iran, dove a chiedere un passaggio c’è il rischio di ritrovarsi alla cena di famiglia, perdere un bus e guadagnare un tappeto per aver domandato dove poterne comprare uno uguale. L’ospite in Persia è sacro e su questo frangente non ha scampo: «non c’era verso di star solo», scherza Zinna, le cui aspettative sono rimaste capovolte nel corso del viaggio. I pregiudizi che confessa di aver avuto sono stati progressivamente smontati da una società cordiale, che ha fieramente rifiutato l’assimilazione al regime islamico (“siamo persiani, non arabi”). Vicende storico-culturali che fanno capolino tra un aneddoto e l’altro, intrecciando al peregrinare del singolo gli eventi di una collettività che cambia. Scopriamo così che in Iran la ribellione è anche questione di posizione del velo, dacché una donna può tendere all’estremo l’elastico dell’obbligo e girare per strada a capo pressoché scoperto, con la stoffa appena poggiata in punta di nuca. E l’alcool, che dire dell’alcool? Consumato di nascosto o bevuto sul confine armeno, dove non vige il divieto, il vizio proibito compare più volte nel romanzo e paradossalmente nello stesso titolo, svelando un popolo la cui vitalità sembra quasi accentuata dalla profusione dei divieti:  col servizio VPN si inganna la censura governativa ed ecco che la connessione a Facebook, a Twitter, persino a Pinterest sembra provenire da altri Stati. Ogni giovane iraniano ha il suo bravo profilo segreto. E ce ne son tanti, di giovani. È stata la guerra con l’Iraq a generare l’incremento delle nascite, caldeggiate dalla necessità di più capitale umano. Quei bambini, ormai cresciuti, compongono una generazione che conosce soltanto il regime islamico, dunque obbligata dalle circostanze a schierarsi politicamente. Quei bambini sono il principale oggetto dello sguardo di Zinna, intento a catturare gli incontri e disporli nelle pagine, ognuno inconfondibile e irripetibile: Reza che non rinuncia al bicchiere di arak, neppure sotto la minaccia di un bombardamento israeliano; Jing Jing dalla Cina, che a Persepoli si intabarra da capo a piedi per non perdere l’estetica del pallore; il calle-pace, cervello di capra mangiato con Ali “a Esfahan, alle sei del mattino, da vegetariano” (pg.190). Nomi che si rincorrono, nomi che scompaiono dietro un vezzo più incisivo, che ne prende il posto: i bevitori del Kirghizistan – “in Kirghizistan la vodka è la risposta a ogni domanda” (pg. 115) -, un “vats your name?” tragicamente incrociato al brindisi; lo chiameranno “Cincin” fino alla fine, credendolo il suo nome.

    I capitoli scorrono rapidi, tra le lungaggini della burocrazia e gli affanni dei mezzi di fortuna – la regola autoimposta è non prendere l’aereo, viversela a piedi o su ruote. La vecchia storia della ricerca della felicità, ci dice, è un mito da sfatare. «Sono partito con dubbi e son tornato con dubbi. L’obiettivo non è la felicità, ma la pace. L’obiettivo è colmare un vuoto.» Banalmente, l’obiettivo può essere poter pronunciare la parola “incredibile” con l’intensità di una prima volta; ed è a tale impresa che si vota l’epilogo del libro, con la promessa, poi mantenuta, di tornare in Iran.

    Gli domando se il viaggio è cosa che può fare chiunque. Mi dice di no, onestamente no. «Il viaggio può essere egoista. Occorrono soldi, occorre fiducia.» C’è carica, dice, ma anche stanchezza. Soprattutto per una donna le problematiche aumentano, ma dipende dagli incontri, come per molte cose: la stretta di mano deve partire da lei. E tuttavia, nonostante l’approccio possa porgere qualche difficoltà, la sicurezza è confermata anche per le avventure al femminile. Lo ribadisce Luca, altro viaggiatore, più volte incontrato per la Via della Seta, quasi un omaggio ricorrente del Caso. Ironico che in Italia vivessero a quindici minuti l’uno dall’altro senza mai essersi incontrati. Luca lo racconta anche a me, appoggiato alla soglia dopo la presentazione. Difficile dire se è più lo spazio del mondo a essere esiguo o le tempistiche di viaggio scaltre. Di certo è sufficiente a far commentare con un “incredibile” realmente sentito, di quelli che l’autore ha tanto cercato.

    Una delle caratteristiche più ricorrenti in Un Altro Bicchiere di Arak è il cibo. Irrinunciabile dono all’ospite, è la scenografia di almeno il settantacinque percento dei dialoghi narrati. Rifiutarlo è reputato offensivo, scrive Zinna, pertanto è bene mantenersi curiosi e in primis avventurosi: gran parte degli aneddoti più colorati del libro ha per oggetto una questione culinaria. Questione che spesso ricade nella comicità, avendo a che fare con pietanze che mettono alla prova il palato e l’occhio occidentale – rivedere sopra il cervello di capra -. Come nel nostro Occidente, è attorno a una pietanza o una bevanda che si allacciano i legami, siano bicchieri di salato doogh alla menta o le chicchere di vetro tragicamente senza manico in cui il popolo iraniano si ostina a versare il tè, dovendo poi travasarlo su un piattino per evitare di ustionarsi le mani – “il ché riporta alla questione del perché”, scrive Zinna, “se è chiaro che i bicchieri non funzionano così bene non si introducano le tazze col manico, ma non sarò certo io a portare un’altra rivoluzione in Iran” (pg. 256). E della Rivoluzione si parla poco, preferendo mostrarne gli effetti ancora evidenti.

    In sintesi, Un Altro Bicchiere di Arak non vi darà l’Iran da cartolina o il misticismo di qualche frase fatta sul senso della vita. Non leggerete che un frammento, che una porzione di vita casualmente intrecciatasi con le strade dell’antica Persia. Sfogliate questo romanzo se una città preferite viverla, anziché visitarla. Sfogliate e sorridete, a tratti interrogatevi sul vostro coraggio.

    Osereste un viaggio simile?
    Indipendentemente dalla risposta, questo viaggio almeno lo si può fare.
    E senza rischiare un calle-pace.

    Sharon Tofanelli

     

    Angelo Zinna
    Un Altro Bicchiere di Arak
    Edizione Villaggio Maori
    22 agosto 2016

     

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