Passo leggero ma deciso, sguardo attento e rassicurante.
Si avvicina a noi dopo aver varcato uno dei tanti ingressi di Piazza del Mercato e ci tende subito la mano, gesto anticipato dal sorriso che raramente abbiamo visto in lei nelle diverse interviste e nei programmi televisivi di cui è stata ospite.
Nel pomeriggio di mercoledì 14 marzo, Piazza del Campus ha avuto l’onore di intervistare la figlia della moglie di David Rossi, Carolina Orlandi, a pochi giorni dalla pubblicazione del suo primo libro, Se tu potessi vedermi ora.
L’incontro fra noi e Carolina si è rivelato disteso e subito confidenziale. Sicuramente ha aiutato molto lo scoprirsi quasi coetanei, il condividere la stessa caparbietà nell’inseguire progetti, obiettivi e sogni, seppur diversi.
Vivendo questa città, è impensabile e imperdonabile un atteggiamento di indifferenza nei confronti dell’evento che ha insudiciato il nome della banca senese già al centro degli scandali finanziari: la morte del responsabile della comunicazione della Monte dei Paschi di Siena David Rossi, avvenuta il 6 marzo 2013.
David muore dopo una caduta di 14,35 metri dalla finestra del suo ufficio nella sede centrale della banca.
Da quel momento in poi la storia si tinge di più tragiche (se è ancora possibile) scoperte, che portano a rivelare una serie di incongruenze nella ricostruzione delle dinamiche della morte.
Nel marzo del 2014 il caso viene archiviato come suicidio.
In un primo momento la famiglia accetta questa ipotesi.
Successivamente, grazie soprattutto al lavoro dell’ingegnere (e consulente della famiglia Rossi) Luca Scarselli, emergono alcune anomalie nel video della telecamera di sorveglianza esterna.
Si tratta di modifiche destinate a far sparire figure umane dalle immagini (video che è stato trasmesso dalla trasmissione Le Iene), o ancora la singolarità della posizione della Procura di Siena, che non ha richiesto perizia dell’intero video ma solo di una porzione.
Le immagini evidentemente manomesse e le ombre che appaiono nel video suggeriscono che qualcuno fosse realmente entrato nel vicolo e, pur vedendo David riverso a terra e ancora agonizzante, non abbia fatto nulla per aiutarlo.
Dalla prima autopsia, sul corpo di David sono stati rilevati evidenti lividi riconducibili ad una presunta colluttazione con terzi, prima della caduta.
E ancora, la posizione in cui il corpo di David atterra al suolo, come si evince dal video, appare inusuale per qualcuno che si getta volontariamente da una finestra.
Nonostante la riarchiviazione del caso, tuttavia, non si riescono a chiarire queste contraddizioni.
Carolina, perché a distanza di cinque anni hai deciso di raccontare la tua storia e quella di David e in particolare che apporto pensi possa dare questo libro al “caso David Rossi”?
Sicuramente il fatto di ridare un volto a una persona già cambia le carte in tavola in un certo senso. Le persone sono abituate ad approcciarsi a questa vicenda solo come a un titolo di giornale. E finché le persone non si rendono conto che in realtà dietro c’è una persona, una famiglia e c’è una lotta molto umana rispetto a quello che è successo, non si possono rendere conto di quanto sia vicino a loro. È importante che le persone ne parlino e conoscano la vicenda perché è successo a me, ma domani potrebbe succedere ad un’altra persona. Se non avessi mostrato la famiglia che eravamo e che siamo tuttora, probabilmente questo nesso non sarebbe stato mai compreso.
Nel libro traspare una critica verso la città di Siena, che nonostante sia stata teatro in cui ha avuto luogo il dramma di quella notte, non è riuscita ad organizzarsi come comunità, dimostrandosi sorda.
Allo stesso tempo la sensazione che abbiamo avuto entrambe nel leggere il libro è che tu cercassi di coinvolgere un lettore più generico e non necessariamente senese. Ci sbagliamo?
No, perché comunque non è una vicenda solo senese. Sì, io da Siena mi aspettavo un raccoglimento, un appoggio morale: io sono di Siena, sono cresciuta qua. So perfettamente quali sono i valori di questa città, che sono venuti meno nel momento in cui io ne avevo bisogno. In questo senso c’è stata la delusione. Però è importante che soprattutto fuori dalla città se ne parli. E, paradossalmente, l’interesse è nato prima fuori la città e poi dentro la città, e questo è assurdo. Però alla fine è arrivato.
In questo momento abbiamo molto più sostegno da parte della città, però mi rendo anche conto che è servita l’attenzione mediatica da fuori le mura per accendere tutto questo. Probabilmente ha solo risvegliato la consapevolezza all’interno di Siena. Le persone adesso ci dicono che non sapevano come comportarsi.
Probabilmente avevano anche paura?
Sicuramente. Poi è indubbio che in questa città, soprattutto in alcuni contesti lavorativi, ci sia un’omertà di fondo tangibile.
E il vostro rapporto con le Iene? Com’è nato?
È una storia strana. Intorno a marzo 2017, quindi un annetto fa, io guardavo le Iene. Ho sempre seguito il programma. E a un certo punto per esasperazione mi sono detta “Non importa, io le chiamo, proviamole tutte”. Quindi io chiamo mia madre per dirglielo. Alzo la cornetta e lei mi dice “Aspetta aspetta, ti volevo dire una cosa prima che me ne scordi. Mi ha chiamata un autore delle Iene per sapere se siamo interessate a realizzare un servizio”. E io sono rimasta gelata.
E a quel punto le ho detto di dare il mio numero all’autore e a fine settembre abbiamo cominciato a girare con la Iena Antonino. Ma il rapporto più solido si è creato con l’autore di tutto il programma. Con loro in generale si è instaurato un ottimo rapporto. È chiaro, comunque, che si tratta di una realtà televisiva e c’è sempre un compromesso di fondo nostro nel rapportarci a certi programmi e a un certo livello di comunicazione. Il compromesso va ponderato: potrebbe valerne la pena pur di riaccendere l’attenzione sul caso. Noi siamo state fortunate perché abbiamo trovato due persone squisite. La differenza fra le Iene e gli altri programmi nel nostro caso è stato che i secondi hanno raccontato (e già è apprezzabile che abbiamo fatto questo) gli elementi che già c’erano, le Iene hanno scavalcato questa fase e hanno proseguito poi nella scoperta di certe cose. Anche perché poi è questo il format che loro adottano.
Possiamo dire che in questa vicenda si scontrano due verità: quella della Giustizia, che ha deciso di archiviare il caso come suicidio, e la vostra che all’ipotesi del suicidio non credete. Tesi supportata da una serie di incongruenze e dettagli che sono venuti fuori con il passare del tempo.
Credi che questa peculiarità renda tuo padre una vittima di giustizia? Questa nostra domanda nasce dal fatto che ci siamo accorte che di vittime di giustizia tu ti stai occupando in questo momento.
Si, più che altro io mi sono dedicata alla condizione quotidiana che vivono le vittime di giustizia. Con vittime di giustizia in questo caso io non intendo tanto David quanto mia madre (Antonella Tognazzi ndr).
Io sto portando avanti un progetto che si chiama Giustiziati. Si tratta di un documentario in cui ho intervistato tre persone che sono mia madre, Ilaria Cucchi e Angela Manca. Tre donne che non si sono mai viste e che tuttora non si conoscono personalmente. Ho fatto loro le stesse domande e mi hanno risposto nello stesso identico modo. L’effetto è stato molto forte: se tre persone che non si conoscono e che stanno affrontando la Giustizia per avere giustizia rispondono allo stesso modo, c’è un problema di fondo. C’è un muro di gomma da parte della Giustizia che tutte e tre hanno vissuto. Si deve pensare alla persona che non c’è più, ma io penso anche a chi è costretto a vivere in questo paradosso continuo.
Questo documentario lo stai realizzando da sola?
Ho già realizzato il teaser che ho portato come progetto conclusivo dei miei due anni alla Scuola Holden di Torino. Ma sono ancora impegnata nella scrittura e con il libro ho dovuto mettere questo progetto da parte. Ma è un progetto in cui credo moltissimo. Oltretutto con i miei amici e colleghi siamo sempre orientati su questo genere di storie: per esempio, fra una settimana saremo in Sardegna per intervistare un sequestrato dell’Anonima.
In quanto lettrici ci hanno particolarmente colpito due aspetti della storia di David.
In un passo del libro si dice che David abbia confidato al fratello Ranieri che un amico lo avrebbe tradito. Oggi sapresti dare un volto a quest’amico a cui ha accennato David?
Assolutamente no, purtroppo abbiamo un sacco di buchi rispetto a quei giorni là. Sicuramente ci sono stati dei momenti dove noi non sappiamo che cosa è successo, ma effettivamente qualcosa è successo. D’altro canto, sappiamo cosa non può essere successo. Hanno scritto nero su bianco delle cose che obiettivamente non stanno assolutamente in piedi. Quando noi abbiamo portato le perizie che illustravano altro rispetto a quello che era stato scritto, loro si limitavano a dirci che non era possibile.
Non cercavano neanche?
No, sono stati commessi degli errori non solo in ciò che hanno fatto, ma certe indagini non sono state fatte per niente. Ed è assurdo perché parliamo di cose che vengono realizzate per prassi in qualsiasi tipo di situazione di quel genere, ma anche in casi di minor gravità. Quindi o c’è un vizio iniziale – ed è quel che penso – o c’è un’incompetenza generale, ipotesi che però mi lascia dubbiosa.
Il 6 aprile del 2016, in seguito alla riapertura del caso, è stato riesumato il corpo di David. L’avvocato Goracci in quell’occasione ti ha informata del fatto che nella bara non era stata inserita nessuna valvola, misura di sicurezza prevista per legge.
Credi che questa mancanza sia dovuta al caso o che qualcuno volesse danneggiare la prova più importante?
Sicuramente il pensiero (del voluto danneggiamento, ndr) c’è stato, ma ad onor del vero va detto che le valvole di questo tipo non in tutte le regioni è legge metterle. In Toscana non è obbligatorio metterle, ma comunque è uso inserirle per evitare il rischio dello scoppio del feretro.
Hai ancora fiducia nel ruolo che riveste la Giustizia in Italia?
Io vorrei tornare a fidarmi della Giustizia, anche se ormai posso solo imparare nuovamente a fidarmi delle persone che, in quanto testimoni, potrebbero essere gli unici a dare corpo all’indagine.
Ad un paio di settimane dalla pubblicazione del libro, qual è il tuo bilancio personale? Hai già ricevuto qualche riscontro, non solo da parte dei lettori, ma anche a livello istituzionale?
Si, questo libro l’ho scritto perché volevo che tante persone lo leggessero. Una volta che ho messo tutto in piazza, a quel punto ho sperato che a rispondermi ci fossero tante persone. E devo dire che in tanti mi hanno scritto che si sono sentiti coinvolti nella vicenda, che sembrava loro di essere lì, a vivere con me tutto ciò che raccontavo. Questo è stato il primo obiettivo raggiunto.
Ci tengo, poi, a rispondere a chi mi scrive perché, se non ci fossero tante persone a leggermi, io non sarei qui a sperare di cambiare le cose.
A seguito della seconda archiviazione del caso, in che posizione si pone la tua famiglia e cosa pensate di fare adesso?
Intanto dobbiamo aspettare risposta dalla Procura di Genova, che sta indagando sull’operato dei magistrati di Siena. È aperto un fascicolo per abuso di ufficio. Dobbiamo capire se effettivamente vengono riscontrate delle mancanze della Procura di Siena. Non è assolutamente scontato che, qualora fosse appurato che delle mancanze ci siano state, si riapra il caso di David. Tutto quello che sto facendo, quando vado in tv, quando rilascio interviste, io lo faccio perché voglio che qualcuno parli veramente. Con una testimonianza si può davvero rimettere in gioco tutto. Purtroppo, gli elementi tecnici e fisici non ci sono quasi più. Tutti gli elementi che abbiamo riportato-non tanto per dimostrare un’altra tesi, ma per evidenziare che la tesi della Giustizia non sta in piedi- ci sono stati restituiti indietro. Stiamo aspettando che qualcuno voglia ripulirsi la coscienza. E cerchiamo anche di capire quali siano le responsabilità della Procura di Siena, perché i magistrati sono l’unica casta che non deve rispondere di quello che fa.
Cosa potete fare? A chi ci si può appellare? Il CSM e, nel nostro caso, la Procura di Genova.
Hanno un termine? No, non ci sono mai. A volta ci sono dei termini, ma capita che non vengano rispettati.
Parlando sempre di futuro, siamo curiose di sapere quali siano i tuoi progetti e quali le tue ambizioni, e se la pubblicazione di questo libro rappresenti per te un punto di partenza o un punto di arrivo.
Io ho moltissima paura di rimanere invischiata in questo personaggio. Ho sempre voluto che questa fosse la mia professione. Per forza di cose ho mischiato quella che era la mia vicenda personale con le mie ambizioni. Temo, da una parte, di non poter riuscire in un futuro a far valere l’aspetto professionale sull’aspetto personale. Il passaggio da essere protagonista a diventare narratrice non è semplicissimo. Pero c’è un paragone che mi rispecchia molto. Io mi sento come una ragazza che ha sempre voluto diventare dermatologo, ma che, in seguito alla morte del padre di cancro, vira su oncologia. Questo è quello che è successo a me. Io ho sempre voluto scrivere di viaggi, realizzare reportage dal mondo. All’improvviso non mi ha più interessato narrare di aeroporti. Viaggio molto meno e mi concentro molto più su quello che succede in Italia, nel mondo della Giustizia, perché mi sento investita di un mandato.
E io a questo mandato ho risposto in primis perché mi toccava personalmente, e poi perché ne ho apprezzato il valore.
Ai nostri occhi sei apparsa come una persona davvero coraggiosa.
Sai, non è il coraggio, in un primo momento è incoscienza. Se non avessi fatto questo, cosa avrei potuto fare?
Quindi anche coraggio di spogliarsi e mostrarsi per quello che si è.
Con il libro forse ho avuto bisogno di un po’ di coraggio. Tutto quello che ho fatto prima del libro e che tornerò a fare rispetto alla vicenda è stato dettato dall’istinto. Io non ho deciso di prendere in mano la situazione, è stato una sorta di automatismo. La cosa più pericolosa è che per affrontare questa realtà devi mettere da parte il tuo vissuto, il calore dei tuoi ricordi. Se mischi le due cose vai fuori di testa. Abbiamo visto cose davvero disumane, pensare di continuare a vivere dopo aver visto determinate cose è assurdo.
È come se il corpo tirasse fuori delle risorse completamente inaspettate. Agisci quasi in maniera meccanica. E la difficoltà sta nel tornare a toccare quei ricordi, che certe volte sembrano più lontani di quanto in realtà non siano.
Al lettore sembra quasi di conoscerti al termine del libro.
Sono stata fin troppo onesta nel libro, infatti il mio timore è di non aver omesso niente. La prima stesura è stata un vero e proprio flusso di coscienza. Ho scritto cose che non sapevano neanche le persone che mi sono più vicine, dando corpo a qualcosa che non solo non è materiale, ma appare come inestricabile. Ora questo oggetto è nella mia libreria, non è più incastrato a tutto il resto. È stato molto terapeutico, catartico.
Chiara Fiaccabrino Claudia Granaldi