
“L’algerina”, Matisse, 1909
L’esposizione Universale di Parigi del 1900
Dicevamo.
Il 1900 si aprì con l’Esposizione Universale di Parigi: evento chiave di straordinaria rilevanza, che si configurò come vetrina internazionale da un punto di vista artistico, tecnologico, ma non solo.
Una società contraddittoria, quella di fine secolo, animata da una serie di problematiche intestine poi sfociate nel massacro. Artisti, filosofi e scrittori presagivano intimamente l’imminente crollo. L’Europa si stava lentamente trasformando in un laboratorio dell’apocalisse.
Parigi vide mutare, in tale occasione, la sua fisionomia: molti monumenti vennero costruiti appositamente per l’Esposizione; tra questi il Petit Palais, la Gare de Lyon, la Gare d’Orsay. L’opera che ottenne maggior successo fu però la Metropolitana, la cui rete venne ammodernata. Per l’impresa fu chiamato colui che divenne il massimo esponente dell’Art Nouveau francese, Hector Guimard. L’architetto progettò ben 141 varchi d’accesso, ideando due tipologie di ingresso (a edicola aperta e scoperta) in ferro battuto verde, dalle forme fitomorfe, ancora oggi molto apprezzate per l’eleganza.
L’espressionismo
In ambito artistico, l’espressionismo fu la risposta alle novità sollevate dalla vacillante situazione europea. Tale orientamento si spiegò come un canto doloroso, un urlo lacerante, una protesta contro l’ottimismo positivistico. L’antipositivismo si trasformò, di conseguenza, anche in antinaturalismo e anti-impressionismo, incarnandosi in ben precisi principi pittorici. La pittura sarebbe divenuta antinaturalistica proprio perché avrebbe dovuto allontanarsi da quella idea espressa da Zola nel suo saggio sul Le roman expérimental in merito alla poetica del naturalismo, in cui elogiava il “puro documento umano” in nome di una assoluta obiettività.
Ma l’espressionismo, pur rinnegandolo, sorse in seno all’impressionismo, superandone però il suo carattere sensorio.
Già nel termine “espressionismo” è in nuce l’inversione di tendenza rispetto alla dinamica impressionista: il moto descritto è in senso contrario E’ il soggetto a dover imprimere di sé l’oggetto.Edvard Munch e Vincent Van Gogh, furono considerati i due padri spirituali del nuovo orientamento. Entrambi avevano concretizzato in pittura, già alla fine dell’Ottocento, l’adesione tra esistenza e arte, senza distinzioni tra materia e spirito.

Tra Munch e Van Gogh: un sentire di fuoco.
L’espressionismo si scagliò nettamente contro quel tono di frivolo edonismo della pittura impressionista, tacciata di diffondere l’immagine di una realtà falsamente pacificata. Esso si configurò quindi come una tendenza fortemente attaccata alla realtà. Non si pose in contrasto con le correnti moderniste ma entrò a farne parte, in modo tale da superarne le contraddizioni storiche e il loro eclettismo, assumendo dei confini sempre più volti alla creazione di un’arte internazionale al di là delle tradizioni storiche.
Esso ebbe due focolai distinti: quello francese con i Fauves (“le belve”) e quello tedesco della Die Brücke (“il ponte”).

Un confronto tra la “Donna in camicia” di Derain e la “Marcella” di Kirchner. Fauves e Die Brücke allo specchio.
I Fauves
Tutto ebbe inizio con la morte di Paul Gauguin. La scomparsa di questo artista fu salutata da Maurice Denis sulla rivista “Occident” con un articolo intitolato “L’influenza di Paul Gauguin”.
Gauguin aveva più volte ribadito la necessità di una pittura lontana dagli impacci della copia scrupolosa della realtà. Ogni opera aveva da essere una trasposizione, una caricatura, «l’equivalente appassionato di una sensazione ricevuta». Tutto ciò doveva tradursi in un’arte dai modi spregiudicatamente violenti, con alberi infiammati di vermiglione e rigide geometrie di rami squassati da venti impetuosi.
I primi risultati si erano ottenuti con i Nabis, (Bonnard, Valloton, Denis) che tra il 1889 e il 1895 si erano dimostrati sensibili verso un’arte venata di intellettualismo mistico. Ma lo spirito era ancora di derivazione romantica, lontano da una vera istanza avanguardistica.
Il riconoscimento ufficiale dei Fauves avvenne nel 1905 alla mostra organizzata presso il Salon d’Automne.
Il critico Louis Vauxcelles, in visita all’esposizione, coniò l’espressione “Fauves” in riferimento alla scelta (a suo parere discutibile) di posizionare al centro della sala destinata al gruppo francese una scultura di Albert Marquet, di sapore rinascimentale, tra le tinte accese delle tele degli altri artisti che sembravano aggredire letteralmente la purezza delicata delle forme scultoree. Da qui la celebre espressione: «Donatello chez les fauves!»
In realtà la compagine di artisti si era già riunita circa dieci anni prima, senza però collaborare attivamente alla creazione di un vero e proprio manifesto programmatico. L’intento era comunque molto chiaro: superare criticamente il decorativismo superficiale dell’Art Nouveau e l’inconsistenza del simbolismo. Nella poetica fauves la natura doveva essere resa, anzi restituita, al suo stato di incandescenza. Il quadro non doveva esprimere ordine: solo espressione. Il fauve, doveva essere un animale pittorico, istintualità pura.
Tutto ciò si tradusse in una pittura dalle gamme cromatiche intensissime di colore puro steso attraverso pennellate piatte. Il linguaggio doveva essere aggressivo, rapido, urlante. In qualche modo, i fauves erano realisti proprio perché la realtà possedeva una sua intrinseca capacità espressiva, che doveva solo trovare il canale adatto per esplodere. I colori divennero allora «cartucce di dinamite», come ebbe a dire André Derain, atti a raffigurare soggetti fermi e statuari, in opposizione alla pittura del transitorio degli impressionisti. Oltre ai paesaggi, i fauves si dedicarono moltissimo alla rappresentazione di nudi femminili, resi attraverso colori dissonanti, ma in una dimensione ancora spiccatamente mediterranea, nelle forme e a livello cromatico, rispetto all’acidità espressa in Germania dagli esponenti della Die Brücke.
Da un punto di vista filosofico si ispirarono a una figura chiave come quella di Bergson. Per quest’ultimo la coscienza coincideva con l’esistenza stessa, come animata comunicazione tra soggetto e oggetto. Un unico slancio vitale determinava creativamente il divenire dei fenomeni e le dinamiche del pensiero. Da Friedrich Nietzsche, i fauves mutuarono la visione apollinea della vita, una visione non particolarmente confortante ma ottimista.
Gli artisti non furono strettamente interessati all’ambito politico, ma – corroborati negli stessi anni dal gruppo della Die Brücke – si schierarono contro l’ipocrisia farisaica della società borghese.
Gli artisti
Henry Matisse è considerato l’esponente di spicco della compagine. In lui il senso della misura, della compostezza e dell’ordine ebbero sempre la meglio. La pittura si configurava come «rapporti di toni trovati», secondo un’armonia che doveva essere analoga a quella di una composizione musicale. L’equilibrio era raggiungibile attraverso una semplificazione delle forme. Un sintetismo già professato da Gauguin ma senza quella aura misteriosa che ancora aleggiava nelle sue opere.

“Luxe, calme et voluptè”, Matisse, 1905
In lui vi era l’auspicio a un ritorno alla classicità mitica, originaria e universale. Nel 1905 espose, presso il Salon des independents, “Luxe, calme et volupté”, un’opera di straordinario impatto, che inaugurava una pittura di tache, ossia di lamelle di colore più dilatate rispetto al puntinismo di Georges Seurat, ma ancora legato ai modi post-impressionisti. L’idea del tramonto si rifletteva su tutti gli elementi della tela: dai tronchi degli alberi, atti a conferire verticalità a un paesaggio altrimenti totalmente orizzontale, ai corpi nudi di bagnanti stese sulla battigia, ripresa di un tema molto caro a Cezanne ma anche espressione di un nuovo panismo che ritornerà in altre opere quali La pastorale del 1905 o La joie de vivre del 1905-1906, immagine mitica di un mondo ritornato alla sua età dell’oro, senza distinzioni tra esseri umani e natura, regolati da un’unica legge universale: l’amore.

“La joie de vivre”, Matisse, 1905-06
Negli anni, la pittura di Matisse virerà verso una progressiva intensificazione di moduli rigorosi all’insegna dell’armonia cromatica, rassodando le forme e creando veri e propri arabeschi di luce e colore, mantenendo una significativa distanza dalla nascente pittura cubista di Pablo Picasso e George Braque (che pure ebbe una parentesi fauve).

“Nudo nello studio”, Marquet, 1898
Suo grande amico fu Albert Marquet. Le sue opere riguardavano soprattutto vedute all’aperto e ritratti. I colori erano stesi con pennellate dense e morbide, e spesso le figure erano vivacizzate da contorni scuri, in modo da rendere la distanza tra i vari piani. I paesaggi risultavano abitati da piccole figurine colte in una grande varietà di atteggiamenti.

in alto: “Le due chiatte”, Derain, 1904 in basso: “La scampagnata”, Vlaminck, 1905
I più fauves tra i fauves furono certamente André Derain e Maurice Vlaminck. I due, grandi amici, condividevano lo studio. La pittura di Derain era dedicata ad interni, donne, ma anche interessata alla rappresentazione di imbarcazioni, come nella sua lunga serie di esperimenti sulla raffigurazione delle chiatte. Vlaminck era un anarchico, un impulsivo. La sua era una pittura violenta, bruta, aggressiva. Col passare degli anni si chiuse in un cupo misantropismo, ravvisabile anche in un progressivo inscurimento della tavolozza.

“Battello imbandierato a Le Havre”, Dufy, 1904
Totalmente opposto Raoul Dufy, che riuscì a rappresentare il clima ottimista e la frescosità di Parigi, attraverso scene di porti ravvivati da coloratissime bandierine mosse dal vento.
Il 1906 coincise con la maturità dei Fauves, la cui pittura virò verso una sintetizzazione attraverso piccoli colpi di colore. Il movimento era infatti reso attraverso questo escamotage ed il colore era autonomo dal concetto di rappresentazione.
Dopo il 1907 l’esperienza francese tramontò fragorosamente con l’avvento del cubismo, che trascinò con sé una personalità quale quella di Derain, interessato a quel punto a sondare il nuovo approccio analitico riservato alla pittura, rimanendone poi amaramente deluso, e tacciando la nuova prospettiva appena inaugurata come un’operazione di recupero archeologico della disciplina classica.

“Natura morta”, Derain, 1910
Nihil sub sole novum.
Alessandra Fichera