Un giorno mi sono svegliato ed ero invisibile. Ripensandoci adesso so che non si è trattato di un’improvvisa sparizione come mi parve sulle prime, ma di un processo ben più graduale che ha portato inesorabilmente al momento in cui, nonostante la mia immagine mi fissasse come al solito dallo specchio, nessuno è stato più in grado di vedermi nemmeno un po’.
Ci sono persone che sono tutte essenza. Quel che hanno dentro lo irradiano fuori, come fosse la cosa più naturale del mondo, e catalizzano l’attenzione degli altri con una facilità che mi ha sempre spiazzato. Nessuno dubiterebbe per un istante della loro presenza, della natura della loro personalità, degli stati d’animo che li attraversano.
Altri invece si trovano in una via di mezzo, del tutto rispettabile, nella quale riesci a ricordarti di loro dopo tre conversazioni, mentre io credo di aver sempre avuto la tendenza ad essere evanescente –o a diventarlo, in particolari momenti. Ad esempio non mi ha mai abbandonato la sensazione che la mia immagine si facesse più sbiadita mano a mano che aumentava il numero delle persone con cui mi trovavo a contatto: nessun problema sull’uno a uno, ero nettamente in difficoltà seduto ad un tavolo con tre amici, e oltre i cinque interlocutori non avresti saputo dire, guardandomi, se quell’ombra fossi io o soltanto una macchia della tappezzeria.
Da adolescente attribuivo tutto questo alla mia totale carenza di tratti salienti: non ero particolarmente bello, né troppo alto, o grasso, e la mia faccia sembrava essere dimenticata con facilità, ma le cose che avevo da dire piacevano alla gente quando, dopo avermi visto per giorni e giorni, si accorgeva finalmente di me- così ho guadagnato i miei più intimi amici, poi mia moglie, e mi auguro che almeno i miei figli siano sempre stati consapevoli di avere un padre.
Se dovessi scegliere un’immagine per rappresentarmi, sceglierei senz’altro quella di una pentola a pressione.
A volte l’infelicità si insinuava nei miei giorni come un’ospite strisciante. Dapprima era senso di sopraffazione –lo stress- poi stanchezza, labilità dell’umore, e infine rabbia. Ero saturo di essere sempre soverchiato dai problemi degli altri: con quale mancanza di pudore me li sbattevano in faccia continuamente, come se fossero stati gli unici ad averne nel mondo! Mia moglie e i suoi genitori ottantenni, i miei figli con l’università e la difficoltà nel trovare la propria posizione nel mondo, mio padre, con i suoi acciacchi di salute. I miei clienti. Pretendevano, o così mi pareva, la mia attenzione, mi assediavano da ogni lato dandomi l’impressione di essere travolto da una valanga di merda non mia. Ma quel che detestavo di più in assoluto, rendendomene conto solo in rari momenti di maggior lucidità, era che a darmi quel senso di soffocamento, che mi faceva svegliare di soprassalto nel cuore della notte, o uscire dalla stanza in cerca di un filo d’aria, non fossero i loro problemi ma i miei.
Sentivo un tappo in mezzo al petto. Nessuno mi chiedeva mai come stavo, anche se, mi dicevo sottovoce, io non facevo altro che rispondere sempre bene! totalmente incapace di dire almeno un briciolo di verità. Prendevo un respiro profondo, inghiottivo e rispondevo: bene. Perfino mia moglie mi diceva ti vedo sereno quando avevo passato la notte a far finta di dormire accanto a lei, mi sembri proprio sereno. Ero costernato dalla trasparenza della mia anima.
E no, non direi di essere mai stato un cuor di leone.
Sparire a volte fa comodo: quando vedi i tuoi genitori invecchiare, quando senti che qualcuno ti sta disperatamente chiedendo un aiuto che richiederebbe sacrificio, introspezione, dolore. Quando senti di aver veramente fatto lo stronzo, è bello fondersi con le pareti. Sparire nel divano. Rendersi invisibili.
Se si riesce ad assottigliarsi a sufficienza, a rendersi inconsistenti quel che basta da non essere più percepiti come una presenza –o almeno, una presenza che conti qualcosa- si può evitare qualsiasi situazione scomoda.
E’ un gioco che ho sempre fatto. Credo di essere diventato piuttosto bravo.
Quando a mia madre è venuto un tumore andavo a trovarla il meno possibile. Il bianco di quella stanzetta, la puzza di semolino e piaghe da decubito, l’odore della morte mi tenevano lontano; ogni volta che oltrepassavo la porta scoprivo qualcosa di nuovo sulla donna che mi aveva dato la vita: aveva fatto amicizia con la signora del letto accanto, aveva raccontato per la prima volta di quando mio padre l’aveva tradita, mia sorella le leggeva i romanzi di Liala al pomeriggio, ogni notte piangeva. Sapevo tutto delle sue analisi, ma la sua mano incartapecorita nella mia mi dava un’acuta fitta di disagio allo stomaco, e dopo averle fatto qualche rimprovero sui farmaci che doveva prendere, dopo averla rintuzzata perché non mangiava abbastanza, me ne andavo.
Percorrevo i corridoi dell’ospedale in fretta, mi affannavo a respirare, ma il tappo non scendeva. Pensavo soltanto che doveva mangiare, non al fatto che stesse per morire. Mi chiedevo se le infermiere fossero abbastanza qualificate, non se le sarebbe piaciuto vedere un film, magari, e quale. Questi pensieri attraversavano la mia mente in via collaterale, quel tanto che bastava a farmi pizzicare gli occhi dalle lacrime, e poi li inghiottivo.
Forse mi ha portato via un colpo di vento. Quel che so è che continuo ad andare a lavoro, e nessuno sembra notare una grande differenza. Le cose sembrano procedere piuttosto lisce e non posso quindi fare a meno di chiedermi da quanto tempo nessuno mi vedesse più.
Anche mia moglie si comporta in modo normale: non è andata dalla polizia, non si strappa i capelli, ogni mattina esce, torna dopo pranzo, legge una rivista, eppure è stato proprio grazie a lei che mi sono accorto di essere diventato nient’altro che un fantasma, il mattino in cui, dopo essermi raso, ho passato dieci minuti accanto a lei in cucina senza che desse segno di accorgersi di me.
<<Buongiorno!>> le ho detto, piuttosto stizzito, ma non ho ottenuto risposta <<Che c’è, sei diventata sorda? Cieca?>> ho alzato la voce senza ottenere risultati, mi sono sbracciato. Ho afferrato la caffettiera e gliel’ho lasciata cadere davanti alle pantofole.
<<Accidenti!>> ha fatto lei col suo adorabile broncetto, e senza guardarmi si è chinata ad asciugare.
Inghiottivo. Annaspavo.
Ogni tanto poi, guardando la televisione, mi immaginavo una vita come quelle che si vedono nelle pubblicità. Ti alzi ben pettinato e sorridi, rubi una merendina al tuo collega e sorridi, prendi una pastiglia per la diarrea e poi abbracci felice i tuoi figli, e mentre osservi il tuo filetto di merluzzo surgelato dorarsi in forno brindi con tua moglie a non si sa cosa, e poi, di nuovo, sorridi.
Questa vita senza ombre. Senza pentole a pressione dentro lo stomaco. Questa vita in cui è tutto cristallino, e non nebuloso e opaco. Invece io sembravo sereno.
Ho sempre provato un interesse profondo per i sentimenti degli altri, e forse proprio per la mia incapacità di riversare fuori anche solo un grammo di quel che avevo dentro ho sempre desiderato ardentemente le loro confidenze. Come ogni altro scambio, però, anche questo è mutuale. Non ho mai detto ad un amico che gli volevo bene, ad una donna che l’amavo, senza sentirmi profondamente a disagio.
Incalcolabili le parole che ho pensato senza riuscire a dirle, i discorsi fatti in una stanza vuota ad interlocutori immaginari, le lettere che ho scritto perché non riuscivo a parlare e temevo d’implodere. Che un giorno qualcuno, entrando in camera mia, mi ritrovasse ridotto a un mucchio di cenere e pensieri segreti.
La sensazione che cresceva in me era quella di essere estraneo a tutti, e la mia paura maggiore quella di essere rimpiazzato: non ero nessuno, quindi chiunque poteva sostituirmi in uno qualsiasi dei miei ruoli, ma non riuscivo a tradurre quest’ansia in azioni, o in liberazione.
Così, quando una sera sono tornato dal lavoro e ho trovato sul tavolo un portafoglio da uomo che non era il mio, una giacca che non mi apparteneva, ho capito che era finalmente successo. La mia assenza era stata sostituita da un’altra presenza, un uomo del quale sentivo la voce insieme alla risate di mia moglie provenire dalla nostra camera da letto. Sono semplicemente uscito di nuovo, e quando sono tornato, un paio d’ore dopo, l’ho salutata con un bacio e ho fatto finta di niente. Le ho chiesto della sua giornata, e credo di non aver neppure ascoltato la risposta.
Ogni tanto, durante un viaggio in auto, mi è capitato di cogliere in mezzo al verde delle colline un’indistinta e strascicata macchia candida incapace di accecare anche l’occhio più sensibile. Sapevo per quel po’ esperienza di campagna che mi è rimasta che si trattava di un biancospino, e mi sono stupito più di una volta che quei cespugli di fiori bianchi dalla bellezza così discreta si riducessero, ogni volta, soltanto a chiazze ai margini del mio campo visivo.
Forse è questo che mi è capitato: sono entrato definitivamente in quel livello della coscienza altrui che si trova appena sotto il percettibile. Un rumore indistinto, un volto che si scorda non appena lo si è visto, l’idea fastidiosa di aver parlato con qualcuno ma non si ricorda quando, né con chi.
All’inizio, naturalmente, ero sconvolto. Ho provato a farmi notare in tutti i modi, ma ogni mia azione di disturbo –urlare, fracassare piatti a terra, mettermi disteso di traverso lungo il corridoio per far inciampare gli altri- veniva prontamente riassorbita, come una distorsione della realtà che con un minimo sforzo si riesce a far rientrare nell’ordine logico delle cose –oggi il vento tira proprio forte; guarda cos’ha combinato il gatto!.
Ero evanescente, poi sono sparito. Ora che mi ci sono del tutto abituato, mi sorprende notare ogni giorno quanto la mia vita, come quella di tutti, non sia cambiata nemmeno un po’.
Così quella mattina, dopo aver rovesciato a terra il caffè, inghiottivo e annaspavo. Il tappo è saltato.
<<So che mi hai tradito.>> ho detto a mia moglie con una voce leggermente isterica. Si è rialzata con la carta assorbente appallottolata in mano e un vago sorriso <<Mi hai tradito.>>
L’ho ripetuto ancora e ancora. Lei era sovrappensiero, mescolava lo zucchero dentro la tazza, e mi sembrava di vederla per la prima volta, quando ha buttato un’occhiata fuori dalla finestra e ha detto, parlando tra sé e sé: <<Oggi è proprio una bella giornata.>>
– L. Cherubini